(da Agrigento a Siracusa passando per mare e barocco- terza puntata)
di Francesco Principato
Ci lasciamo Ibla alle spalle e iniziamo la calata a mare. Dopo aver lambito Modica e aver percorso una ventina di chilometri fra curve con sdirrupi a lato e viadotti da vertigini, finalmente, nei pressi di Ispica incontriamo il cartello indicante l’autostrada Gela – Siracusa. Minchia, allora esiste davvero! La imbocchiamo solo per il piacere di raccontarlo e la percorriamo fino all’uscita per la SP 26 nei pressi di Rosolini e puntiamo verso lo Ionio. Strade trascurate anche qui ornate di occasionali discariche, segnaletiche fatiscenti fin quando, man mano che ci avviciniamo alla destinazione, spunta qualche cartello pubblicizzante B&B e ristoranti: segno che siamo sulla strada giusta e che il navigatore satellitare stavolta ci ha preso.
Il borgo sembra in ristrutturazione, sicuramente ormai non c’entra più il 110% ma il battage pubblicitario che attorno a questo vecchio villaggio di pescatori ha portato investitori a rilevare vecchi catoi e magaseni di pescatori, da trasformare in case vacanze e residenze estive di villeggianti oppure per avviarci l’ennesimo punto di ristoro. Cerchiamo parcheggio più vicino possibile al porticciolo e alla piazzetta. Un uomo sotto l’ombrellone a guardia di uno spiazzo ci richiede 5 euro per parcheggiare; dico che devo sostare al massimo un paio d’ore ma mi ripete più esplicitamente la stessa cosa: sempre 5 euro sono. Faccio marcia indietro e punto le strisce blu comunali. C’è un gruppetto attorno alla colonnina dei ticket, chiedo chi è l’ultimo della fila ma mi indicano il pizzino attaccato con lo scotch alla colonnina: fuori servizio. Alcuni ragazzi provano a pagare il parcheggio con app e telefonino ma è impossibile. A ‘sto punto, solidalmente ce ne fottiamo del ticket e ci ripromettiamo, se è il caso, di coalizzarci contro eventuali vigili venuti a multare.
Una leggera brezza da nord mitiga il calore del sole limpido, porta all’olfatto profumi di alghe e salmastro. Ci avviciniamo ancora di più alla piazzetta e ai profumi della natura marina si unisce quello della frittura e della carbonella che comincia ad ardere. Percorriamo 50 metri del litorale delle vecchie latomie, cercando di osservare sotto il pelo del mare i resti delle cave da cui gli antichi greci estraevano la pietra per costruzioni. Poi tagliamo per un vicolo e ci ritroviamo in piazza Regina Margherita, l’iconico largo di Marzamemi, meta di migliaia di turisti. Anche se ancora non è stagione, gli stranieri in posa a chiederti di scattargli una foto sono in tanti, come tanti sono quelli giù seduti ai tavoli di bar e ristoranti che occupano quasi tutto lo slargo. Giriamo il perimetro dell’assolato agorà e ci soffermiamo ad ammirare palazzo Villadorata, che sovrasta l’antica tonnara dei conti Calascibetta e le due chiesette che sembrano due dirimpettaie pronte a contendersi gli stranieri. Attraversiamo la piazzetta ed entriamo nel porticciolo, ancora con il suo artigianale scalo di alaggio, la vecchia tonnara sdirrupata e la decina di ristoranti bar negozi di souvenir chioschetti e offerenti di gite in barca. E’ quasi ora di pranzo e più che una gita, il mare ci suggerisce un pasto da pescatori. Optiamo per un coppo di frittura di paranza: per mantenerci leggeri e poter riprendere subito la via per Noto.
La frittura era più fresca del calice di grillo che abbiamo bevuto in due (si doveva andare poi in macchina) e l’arrampicata sul colle di Noto non è stata lunga, sicuramente più agevole di quella di un gruppo di tre coppie di cicloturisti ultracinquantenni che in salita arrancavano sigzagando. Ho rallentato ad osservarli e più che pazzi mi sono sembrati degli aspiranti al suicidio: alle 15,00 sotto un sole cocente si contorcevano sui pedali e sbuffavano come il treno che secondo me sognavano di prendere. Ah, preciso per chi è apprensivo: li abbiamo incontrati a Noto la mattina dopo mentre facevano colazione al tavolo di un bar, li ho contati e c’erano tutti.
Anche qui alloggiamo in centro, a 50 metri dal duomo e dagli edifici che ne hanno fatto Capitale del Barocco e dal 2002 Patrimonio dell’Unesco. La prima visita non può essere che la cattedrale di San Nicolò e il palazzo vescovile. Già, palazzo vescovile: questa non la sapevo e l’ho imparata appeno ho chiesto ad un custode della chiesa cosa fosse quel maestoso palazzo. Mi ha risposto come se fossi un bimbo che non ha studiato: non lo sa? ma è il palazzo del vescovo. Così scopro che Noto è sede di diocesi ma non solo: è sede anche di un grandioso seminario, ma dubito sia al completo. Completiamo invece la visita delle strutture ecclesiastiche della piazza, entrando nella chiesa di San Francesco all’Immacolata. Non si paga nessun ticket per visitare i santuari, chiedono soltanto un’offerta libera. Il ticket lo fanno pagare invece le istituzioni comunali. La visita all’originale e ammirevole Palazzo Ducezio, sede del municipio, costa 5 euro a persona ma con un biglietto cumulativo di 10 euro a persona si può visitare anche il teatro comunale Tina di Lorenzo e lo splendido palazzo Nicolaci di Villadorata, un esaustivo compendio dello stile Barocco che abbraccia balconi, facciate e portali. Il fabbricato sorge nella via Corrado Nicolaci, sede della famosa infiorata che noi abbiamo solo intravisto dai disegni stradali (eravamo con 3 giorni di ritardo). La vista del duomo dalla terrazza di palazzo Ducezio è una visione unica: la facciata maestosa e la scalinata imponente sembrano dorate per il sole che comincia a calare. Scendiamo dal municipio e entriamo nel teatro Tina di Lorenzo. Al custode chiediamo lumi su questa per noi Carneade dello spettacolo e ci rispondono che è una attrice figlia d’arte di una netina di rango, discendente dei conti Castelluccio di Noto. A prescindere dalle qualità attoriali dell’intestataria dell’edificio, il teatro è un bijoux: piccolo con poco più di 300 posti ha però tre file di palchi e ampio fondale e perfino la buca per l’orchestra. Inaugurato nel 1870 e più volte restaurato, è fruibile non solo per le visite ma anche per gli spettacoli di prosa. Prima di riprendere l’esplorazione della capitale barocca, ci sediamo al bar per una rinfrescante granita e brioche (rigorosamente con il tuppo alla catanese); gelsi e melograno sono i gusti che ci consiglia la barista e alla fine la ringraziamo per il consiglio. E’ ora di riprendere prima che tramonti il sole ma… le gambe sembrano come quei cavalli di piazza di Siena che si bloccano davanti all’ostacolo: si rifiutano di affrontare tutte le scalinate che ci sono da fare. Ma ecco che… c’è il trenino che porta i visitatori nella parte alta della città. Lo prendiamo, tanto poi si sa come si dice: a scinniri tutti i Santi aiutanu e la scalinate dipinte o illuminate artisticamente diventano più affascinanti in discesa. Così che dopo la città blasonata ricostruita dopo il terremoto, visitiamo anche la città vecchia e quella dei palazzi borghesi che, stranamente, rispetto a quelli nobiliari sono situati in alto, esattamente il contrario della canzone Mercanti e servi dei Nomadi…. vabè perdonate questa reminiscenza musicale. Comunque il motivo per cui gli aristocratici siano scesi in basso non c’è nessuno che me lo ha spiegato ma ho potuto dormirci sopra lo stesso. Per la stanchezza, certo.













