Lun. Lug 28th, 2025

Agrigento : una città tra fautori e denigratori che si palleggiano  i ruoli

Lettera aperta di Settimio Biondi all’amico Matteo Collura per gli ottanta anni dello scrittore agrigentino

Pare che per amare Agrigento non ci sia una terza via tra il doverlo con malevolenza o con cieca dedizione. A volte le parti si scambiano come nei turni di riposo dei facchi­naggi: i fautori diventano denigratori e viceversa. Lo stia­mo vedendo nel presente della Capitale della Cultura e nei palleggiati e ondivaghi giudizi che circolano in Città, come per effetto di un continuo cangiamento dei venti e dei loro riscontri. In questo meccanismo, al di là dei ricavi venali e delle soddisfazioni “in negativo”, c’è qualcosa di vaneg­giale: la “domanda” diventa offerta e questa viene rilan­ciata come domanda.Eppure una terza via per amare ed essere utili alla Città ci sarebbe, c’è: quella dell’amor cauto, realistico e previ­gente, e in una parola dell’amor critico, imboccata e por­tata avanti da anni e con coraggiosa coerenza dallo scrittore-giornalista agrigentino Matteo Collura. In una Città la parola critica e il relativo aggettivo suo­nano maldicenza, pessimismo, peccato o quanto meno inopportunità: disvalori che vanno scongiurati e allontanati con l’aspersione del silenzio e della misconoscenza. Eppu­re la parola critica, dal greco krino che significa giudico e conosco e che sottintende la parola techne, vale arte o tec­nica del giudicare. La sottocultura becera ha dato al termine un significato disgregatore, e ad Agrigento l’eccezione perdigiorno di una lagnosa sforbiciatura. Vi si contrappo­ne dunque la techne di un sapere senza giudizio che apre all’antinomia discorsiva di cui facevamo cenno: l’amor su­pino e l’amore denigratorio. Entrambi dunque infondati e infondabili. Matteo Collura va a compiere nel prossimo mese di agosto ottant’anni. E nato “per caso” ad Agrigento come Luigi Pirandello ed Ezio d’Errico o come Luigi Longo che “per caso” non vi nacque ma volle rinascervi per sfuggire dal luogo di nascita che in molti casi, come nel suo, è una condanna. L’essere nato “per caso” in un luogo è, lo si dica o meno, o addirittura non lo si pensi, un segno ed un simbo­lo di libertà. Il “caso” di Collura è peraltro uno di quelli che smentiscono la fortuità e anzi l’accerchiano casualmente. Matteo nasce infatti ad Agrigento da padre di Grotte e da madre di origine favarese nata a Bengasi in Libia al tempo della seconda ondata emigratoria siciliana verso il vicino continente africano che fa il paio con quella antecedente diretta in Tunisia. Entrambe fanno da contrappasso alla mi­grazione che prima dell’anno mille portò i magrebini in Si­cilia, apportandovi un inatteso e straordinario progresso che toccò ai normanni di mettere a profitto facendo dell’isola il Regno più progredito d’Europa. Quindi Matteo è tre volte agrigentino: perché vi nacque, perché generato da genitori originari di due Comuni che fanno corona alla città quasi a rappresentarne l’intera Provincia, e perché la madre libica aggiungeva al figlio agrigentino un’aura mediterranea. Dal padre grottese Matteo Collura ha indubbiamente ereditato l’inconfondibile franchezza di quella popolazione attiva e intellettualmente insonne, usa a dir sempre la verità senza filtri né condimenti. Possiamo considerare quel paese di più che probabile origine ebraica (lo vediamo dalle sue grotte tipiche di una giudecca medievale e dalla alacrità dei suoi commerci) come una minuscola cittadella della storia e del pensiero europeo. Scrittori del Nord Europa vi sog­giornarono e vi impiantarono trame di romanzi. A lungo vi soggiornò Michail Bakunin, ammirandone il coraggio so­ciale e lo spirito liberatorio. Vi ebbe origine Pietro Ingrao, politico monolitico e irriducibile. Nessuna popolazione è tollerante come quella, e nessuna tanto intollerante verso l’altrui intolleranza: tanto sul piano civile che culturale e religioso. Forse dovremmo conoscere ed apprezzar meglio i Comuni della nostra Provincia; forse avremmo dovuto non venir meno alla nostra posizione di Capoluogo, per assi­curare all’intero territorio uno sforzo comune di maggior progresso. Dalla madre lo scrittore ha acquisito la caratte­ristica dell’ordine e della disciplina relazionale, e una sorta di perentorietà delle idee e del coraggio. Matteo Collura ha lavorato in diverse testate nazionali, ma la sua notorietà è richiamata dalla lunga carriera trascor­sa al Corriere della Sera come responsabile delle pagine culturali. Ha all’attivo numerosi libri e romanzi, alcuni tra i migliori e più impegnativi pubblicati nella seconda metà del secolo scorso, dei quali non mancano le traduzioni e la pubblicazione in lingue straniere. La sua opera è stata fatta oggetto di lavori universitari e tesi sperimentali, nonché di monografie critiche. É stato chiamato in RAI come ospite di alcune trasmissioni. Ha dedicato a Pirandello un ponde­roso e illuminante volume, importanti strumenti di conoscenza interiore del Nobel con­cittadino. Un diverso aspetto della sua notorietà lo collega alla figura di Leonardo Sciascia, di cui con imprecisione sembra essere stato il “figlio letterario adottivo” predilet­to, mentre è stato probabilmente solo o qualcosa in più di un suo grande e giovane amico. Quel giudizio sommario e pervasivo va infatti rivisitato e corretto. Indubbiamente Sciascia ha mediato in Collura la conoscenza interpretati­va e metaforica di Pirandello nell’ambito della presa d’atto della realtà agrigentina: ma c’è qualcosa in più. Sciascia era nato a Racalmuto, cittadina di grande antica rimboccante e stratificata cultura: cultura niellante e fumigante in volute. Sciascia a mio giudizio ha sentito il bisogno di confron­tarsi con un giovane giornalista – scrittore fresco, sponta­neo, veridico fino all’inverosimile: induttivo e non dedut­tivo. Ha avuto il bisogno, in altri termini, di un “girgentino grottese”: uno che sapeva dire le verità più franche. Del resto Collura non soltanto ha avuto come grande sincero amico il grande Sciascia, ma anche uomini come l’altret­tanto grande Umberto Eco, suo compagno di viaggi, Carlo Bo e cento altri. Pirandello, dunque, e Collura, a prescindere dalla di­sparità dei due Autori: proviamo a tracciarne il punto re­lazionale e successorio. Indubbiamente Pirandello ha sco­perchiato la città natale denunciandone in termini non lungi da una concezione filosofica la “pena di viverne” la vita, e ritrovando questa pena esistenziale nel modo intero delle vicissitudini umane. Collura è stato ora tentato di essere un ricostruttore della Città: uno scrittore civile che ha tentato di omologarne la vita in una vita riscattata, normalizzante. Ha quindi dovuto prendere posizione, quando costretto (e spesso provocatoriamente costretto) contro la faciloneria agrigentina, il pressappochismo, una speranza non nell’o­pera ma nel miracolo e nella vanità. Ricordo le tante volte in cui, stimolato per tranello, è stato costretto a dire che il progresso agrigentino passava per tempi lunghi, operosi, impegnativi, preparatori e consecutivi, lasciando di stucco e in disappunto coloro che attendevano il miracolo del cam­biamento. Ricordo che in un dibattito il moderatore, innanzi ad alcune realistiche asserzioni dello scrittore, ebbe a dire: “Si…, ma… da qui a qualche anno si può, certamente av­verrà…” etc. “Avverrà quel che avremo fatto”, rispose lo scrittore. I tempi lunghi e impegnativi spiacciono ai miei concittadini, specie quando si pretendono impegnativi. La Città cambierà da sé, è credenza comune. Il postulato scrit­tore è il fare. Il postulato dei concittadini l’attendere. Ad agosto Matteo Collura va a compiere ottant’anni. Lo festeggeremo in molti, e noi amici di Matteo Collura non attenderemo un secolo per comprendere l’importanza del suo equilibratissimo spirito e del valore culturale della sua opera e della sua attività: come avvenne, esempio di gran lunga maggiore ma simile, di Pirandello: che ai suoi tempi, e vivo, la Città fu tarda e restia a riconoscere.

Nella fotogallery i festeggiamenti presso la Biblioteca Lucchesiana

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