Gio. Dic 11th, 2025

NEL CALCIO NON ESISTONO CAREZZE

di Gianni Rivera

Nel calcio non esistono carezze: o ti formano, o ti spezzano. Nereo Rocco apparteneva alla prima categoria, ma il processo era brutale. Non era un semplice allenatore: era un uomo che entrava sotto la pelle, che ti guardava negli occhi e sapeva cosa ti mancava prima ancora che tu lo capissi. Non ti chiedeva di dare tutto: pretendeva che tu andassi oltre. Con lui non esisteva l’idea di accontentarsi.

Rocco era un maestro della mente, uno psicologo senza laurea, capace di interpretare il linguaggio silenzioso degli spogliatoi. Sapeva quando intervenire, come smorzare le tensioni, quando trasformare un litigio in energia. Era un custode delle personalità, un architetto dei caratteri. Allenava uomini, non moduli.

Liedholm era un’altra razza ancora. Apparentemente freddo, quasi distante, ma dentro aveva una lente d’ingrandimento puntata sulla psicologia del giocatore. Studiava gli umori come fossero schemi. Molti gli attribuiscono la nascita della marcatura a zona, ma è una semplificazione: lui l’ha modellata, perfezionata, resa sistema. In quegli anni, la vera zona la giocava solo il Brasile. E quel famoso 4-2-4 celebrato in ogni manuale? Una bugia elegante: Zagallo non era un’ala aggiunta, ma un centrocampista che allargava il campo. Era un inganno tattico, non una rivoluzione strutturale.

Poi arrivò il 1969, l’anno del Pallone d’Oro. Me lo misero tra le mani come un trofeo indiscutibile, ma dentro di me c’era una certezza inossidabile: il migliore era Pelé. A quell’epoca il regolamento impediva ai non europei di vincerlo. Così il premio venne a me, ma la verità calcistica rimase altrove. Un riconoscimento legittimo, certo, ma figlio di un confine geografico, non di una classifica universale.

E su Mazzola… una storia distorta dall’esterno. Due giocatori diversi, due modi di intendere il campo, ma nessuna frattura personale. Il dualismo non nacque dal pallone, ma dalla politica, dai giornali, da un Paese che amava scegliere un “meglio” anche dove bastava dire “diverso”. In Messico ‘70 ci mutilarono tatticamente: Mazzola il primo tempo, io il secondo. Una staffetta forzata, innaturale. Nella finale contro Pelé quasi non toccai campo. Mi brucia ancora oggi, perché certi momenti non puoi recuperarli. Li vivi o li perdi, e io quel giorno rimasi fuori dalla storia che avrei voluto attraversare.

Questo è il calcio che ho conosciuto: fatto di uomini enormi, di verità non dette, di equilibri invisibili. Un mondo in cui la testa contava quanto i piedi, e dove le partite iniziavano sempre molto prima del fischio d’inizio.

— GIANNI RIVERA

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