di Diego Romeo
In questo anno horribilis della Capitale della cultura, due differenti trasposizioni del “Fu Mattia Pascal” di Pirandello sono transitate sulle tavole dei palcoscenici agrigentini. Sempre quest’anno altre opere fondamentali sono state messe in scena: “Il berretto a sonagli” regia di Giovanni Volpe con un Ciampa forzatamente leninista (una sorta di ingegnere di anime lontano dal Pirandello “umano e irreligioso”), “Uno nessuno centomila” del “piccolo teatro” agrigentino con poco sapienza traspositiva e poi varie altre opere come “L’altro figlio”, “All’uscita”, “La morsa” con l’attenta deriva di Angelo Cinque che è riuscito a formare una sua piccola enclave attoriale. C’è il rischio che mettere in scena Pirandello sia diventato un obbligato divertissement senza poi dimenticare che scrivere libri rischia anch’esso l’ obbligo di applicare soggetto predicato e complemento, sol perché Pirandello, Sciascia e Camilleri sono nati in queste lande desolate. Superfluo accennare alla presentazione di libri diventato un consumato rito teatrale per selfie, cene con sarde beccafico e the verde per nobiluomini mentre la politica (fatta dagli “invisibili” secondo “E’ tutta colpa di Solone” dello scrittore Andrea Cirino) si affretta a donare circenses al popolo che si barcamena fra la possanza delle due Agrigento, quella del povero comune e quella del ricco Parco archeologico il cui direttore quando può riesce ad eludere certe telefonate regionali salvando così non solo la sua dignità di funzionario ma anche quella di un sito Unesco spesso considerato una escort o una gallina dalle uova d’oro. L’altra sera dopo il “Mattia Pascal” di Glejieses ho azzardato una proposta al direttore artistico del bel cartellone teatrale, Gaetano Aronica, quella di promuovere un “teatroforum” alla fine degli spettacoli e catturare quei volenterosi che sono sfuggiti ai 62 convegni pirandelliani (internazionali) diretti da Enzo Lauretta e fare felice il fantasma di Pirandello che ci aveva chiamato “piccoli uomini feroci”, senza pasticcini e salsicciotti soprattutto reclamando la presenza (del plotone che amministra) del forzista Riccardo Gallo, dei pisaniani, dei salviniani , dei demauriani, magari per partecipare attivamente (con la stampella -inciucio offerta sempre dalla sinistra che ha chiuso la bocca all’osservatorio sulla capitale della cultura con il “solletico della filosofia”- dice Gèrard) alla conquista di una nuova egemonia che ci sia ciascun lo dice dove sia nessun lo sa. E anche di sanità nonostante Cuffaro ci abbia svelato e confermato tutto quello che bellamente supponevamo. Chissà, forse avrebbero gridato “Siamo tutti Mattia Pascal” e finalmente compreso l’accorato grido di Serafino Gubbio-Pirandello che si specchia nella contemporaneità: “Tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita non può produrre ormai altro che stupidità. Stupidità affannose e grottesche! Che uomini, che intrecci, che passioni, che vita, in un tempo come questo? La follia, il delitto e la stupidità.” Tremendo e profetico questo “Mattia Pascal” le cui considerazioni letterarie diventano vita e teatro che si rispecchia metaforicamente e profeticamente nei nostri tempi. Centoventuno anni dopo ( il libro fu scritto nel 1904) il suo profilo si ripercuote sull’uomo contemporaneo, disaiutato e truffato. Quell’uomo che dopo Auschwitz si era ripromesso di “non scrivere più poesie”. E dopo Gaza? Quali promesse si imporrà? L’uomo si affaccia sulla scena sconnessa di questo cosmo allucinato che non ha risposte da dargli e gli manda incontro i frammenti di una consistenza che si è sgretolata. Non gli resta allora che strapparsi dal viso, dall’anima quella maschera grottesca sulla quale il caos della vita ha inciso come una smorfia di dolore i segni della propria rapina. Strapparsela, liberarsi dalla falsa individualità ed evadere dalla prigione, è questa l’ultima illusione della creatura pirandelliana e rende necessario, inevitabile il tentativo anarchico, l’avventurosa fuga di Mattia Pascal. Ma con quali connotati può ricostituirsi una coscienza, con quali valori una fede, con quali sogni una libertà se il crollo del mondo ha travolto anche la nostra intima essenza. Evadere è dunque impossibile, vivere è impossibile se non nei rapporti falsi, nelle dimensioni relative di un mondo mistificato. A Mattia Pascal non resta altro che tornare sui suoi passi, rivestire uno ad uno i panni dimessi della sua vecchia mascherata, cercare di ricomporre i frammenti della sua antica forma nella quale rassegnarsi e patire e vanamente ragionare e lungamente sospirare l’irrealizzabile libertà. Ed ecco che con Pirandello, per accogliere la tragedia storica dell’uomo moderno, il vecchio palcoscenico naturalista si apre, cadono le sue pareti di carta, le sue dimensioni convenzionali. I protagonisti vi accedono portati da un’ansia, da una volontà di espressione che trascende il significato relativo del povero dramma che ciascuno di loro ha vissuto. Gli altri, la meccanica indifferenza degli attori, il conformismo commerciale del capocomico, hanno bisogno di fatti, di casi originali, impressionanti. Ma essi, i personaggi, hanno un ben diverso dramma da rappresentare. Non è un caso ma una fortunosa necessità che i due teatri delle due città (il “Pirandello” e il Palacongressi) chiuderanno il loro cartellone, il primo, con la carnezzeria similfolclorica di “La sagra del Signore della Nave” per la regia di Roberta Torre mentre il Palacongressi l’altra “carnezzeria” dolente ed emarginata di “Extra moenia” di Emma Dante. Quest’ultima per la prima volta ad Agrigento. Chapeau al direttore artistico Gaetano Aronica.
( foto di apertura SATIRA AGRIGENTINA)
nella foto sotto.: il protagonista Mattia Pascal si imbatte in un dipinto rinascimentale agli Uffizi, il Ritratto di giovane, che si presume essere di Perugino (o forse Raffaello), un’opera che lo fa riflettere sull’identità e sulla vita, un tema centrale del romanzo.


