(brano tratto dal libro “Metàversi apocrifi” di Giuseppina Baldanza- Carlo Saladino Editore)
C’era una volta, mi verrebbe da dire… non pezzi di cannone del sedicesimo secolo che ogni tanto il mare di San Leone ci restituisce, quanto un pezzo del nostro passato che non è trapassato fin che qualcuno ne avrà memoria.
A chi l’arduo compito? Scavo appena nel ricordo e ricordo che, nel tempo in cui ciò avveniva, il modo d’agire dei giurgintani si nutriva di attorialità inconsapevole, più efficace di un testo teatrale, recitato da personaggi senza autori.
Le recite iniziavano di primo mattino quando le massaie, togliendo il fallarino e una ravvivata al tuppo, uscivano di casa, portando con sé la sporta a retella e due domande d’obbligo per il bottegaio “nenti cci metti?” “nenti cci leva?”.
La prima si riferiva alla quantità, la seconda al prezzo.
Più che una contrattazione, era una colluttazione estenuante e terminava nel momento in cui la fimmina si palpava il petto e, con una mano sul malloppo e una mossa rapida, tirava fuori il fazzoletto, annodato come un laccio di Scarpa, pagava e diceva “stamatina unn’è cosa. Chiuemula ddrocu!”. Mortificava la scena solo il pizzino “signassi” ma niente trattativa. Ovviamente nel duemila e passa, a chi verrebbe in mente, entrando in un centro commerciale,
una richiesta del genere? Figuriamoci
“Signorina, me la passa di meno?”
“Non posso, sono soltanto la commessa”.
Il gioco è chiuso, la voglia è passata e chi s’è visto, s’è visto. Perciò, nei tempi che siamo, i giovani non comprenderebbero. Non così allora: un cenno di saluto e lo sguardo malandrino, per non inficiare la trattativa: “A quantu Sunnu stamane matina i cacocciuli?”.
Dopo il prezzo la replica: “E chi mi sta vinnennu oru?”.
E la replica: “Se voscenza trova cchiù soddisfazione, cci l’arrigalo”.
L’esercente era costretto, dunque, ad alzare la base d’asta,per arrivare, col tira e molla, al prezzo reale della merce. A fine trattativa, la riconciliazione. Ritornava nei loro volti quel senso d’umanità che è tipico del nostro Sentire e ci niscivano fora pure i saluti per la famiglia, nanno compreso. Ma il bisogno è una brutta bestia! Perciò, se la figlia, ormai adolescente, avesse voluto assumere il ruolo della madre, si sarebbe sentita dire ”moviti a
Casa ca pa spisa ci pensu ju” dando più peso al risparmio che alla fatica.
Un’abitudine che andava avanti per inerzia tutti i giorni, finché in città non arrivò il terremoto. Pensate alla frana? Ma quando mai! Tutto avvenne un paio di anni prima. A sconvolgere la cittadinanza nelle abitudini, nei modi di dire, nei modi di fare ci pensò il signor Messina, proprietario di un negozio di tessuti lungo il corso della via Atenea. Una bella matttinata di un giorno qualunque del mese di giugno, in vetrina, anziché il solito manichino e
pezzi di tela, spuntò uno striscione di colore rosso fuoco con la scritta bianca a caratteri cubitali: PREZZI FISSI. In un primo momento cercarono di prenderlo con le buone “amunì, circassi d’arraggiunari, ‘ncuntramuni a mità strata, né pi nantri, né pi vossia” Niente da fare, niente convincimento, e allora? Si chiamava in causa l’ironia che da noi arriva senza essere chiamata.
“Al Signor Messina cci piace il babbio” dissero le donne giurgintane ché, in vicinanza della festa di San Calò la vistina nova è d’obbligo e la stoffa macari.
Ma, per il signor Messina, “u babbiu era una cosa seria! Forse gli stava venendo uno scascio da stress, per dedicare tre quarti della sua giornata a “videmu cu s’arrenni prima”.
“Cu ci cummeni accatta e accù ‘un ci cummeni si nni và avrà pensato l’esercente, stracatafottendosene dei clienti, della stoffa e del matapollo.
All’inizio fu una rivolta di commenti spassosi, accompagnati da conclusioni filosofiche. “Sta cambiando il mondo! Quannu s’ha dittu mai Prezzi Fissi!”. “Vo’ vidiri ca ‘i fissa semu nautri ca calamu li corna a tutti li cazzati?”
“Ehi, no,cummari beddra! Si purtamu pacenzia, prima o po’ li corna li cala iddru!”.
Era uno scialo tra risate e babbio. I giurgintani non entrarono in negozio, il signor Messina non abbassò le corna, piuttosto, alzava la serranda, aggiungendo alla vetrina qualche faretto in più, per rendere luminose le stoffe di pregio, e non arretrò di un solo passo.
Ormai la prima domanda delle fimmine per il bottegaio, a scanso di equivoci, era “Nun criju ca puru vossia fa prezzi fissi!”.
Inspiegabile come i misteri, il signor Messina continuò a vendere la sua merce, fermo alla parola data: PREZZI FISSI:







