di Alessio Ludovici (su “laquilablog”)
Agrigento Capitale italiana della Cultura 2025 è finita nel vortice delle polemiche. A meno di sei mesi dall’avvio ufficiale dell’anno, la città siciliana è ancora al centro di un acceso dibattito nazionale che coinvolge il programma promesso, le risorse già spese e la governance della Fondazione incaricata della realizzazione. Su La7, l’altro ieri sera, è andato in onda l’ennesimo servizio che ha evidenziato le tante criticità. Una situazione che in questi mesi ha attirato l’attenzione non solo degli osservatori culturali, ma anche di chi, come L’Aquila, si prepara a raccogliere il testimone per il 2026.
Secondo quanto emerso da diverse inchieste giornalistiche, il progetto siciliano, che aveva entusiasmato la giuria ministeriale per la sua narrazione identitaria e mediterranea, è oggi in parte disatteso. Molti degli eventi annunciati sono scomparsi dal programma, mentre nuove attività sono comparse senza alcuna coerenza con la visione originaria. Alla confusione progettuale si è aggiunta quella amministrativa: una direzione artistica nominata con forte ritardo, una governance al centro di polemiche per la mancanza di trasparenza e per gli incarichi affidati per via diretta senza bando e senza tracciabilità pubblica.
Lo scarto tra le promesse iniziali e lo stato dell’arte ha alimentato un sentimento diffuso di disillusione, tanto che a inizio anno si è paventato persino il rischio di un commissariamento della Fondazione. Il caso Agrigento sta dunque sollevando interrogativi più ampi sul significato stesso del titolo di Capitale della Cultura, sulla tenuta delle città vincitrici e sul ruolo delle istituzioni centrali nel vigilare sulla coerenza e sulla qualità dei progetti.
In questo scenario, L’Aquila osserva con attenzione. La città, che ha ottenuto il riconoscimento per il 2026 con un dossier centrato sulla cultura come infrastruttura di ricostruzione, è ora chiamata a non ripetere gli errori già emersi altrove. Le risorse non mancheranno, ma la vera sfida sarà quella della responsabilità pubblica, della qualità progettuale e del coinvolgimento reale della città.
Agrigento dimostra che il titolo, da solo, non basta. Senza visione, senza metodo e senza dialogo, il rischio è di trasformare un’opportunità straordinaria in una passerella vuota. In questo quadro incerto, L’Aquila ha l’occasione – e la responsabilità – di segnare una differenza netta. Designata Capitale italiana della Cultura per il 2026, dopo aver sfiorato il titolo già nel 2022, la città può oggi imparare da chi ha fallito e ispirarsi a chi ha saputo fare della cultura un motore reale.
Basti guardare all’esperienza di Procida Capitale della Cultura 2022, candidata quell’anno contro L’Aquila. L’isola del Golfo di Napoli ha dimostrato che si può costruire un progetto solido anche con risorse limitate e dimensioni ridotte. In dodici mesi sono stati realizzati 150 eventi con oltre 350 artisti da 45 Paesi, coinvolgendo attivamente migliaia di cittadini. Il programma, secondo le stime, ha generato un impatto economico stimato in 33 milioni di euro, con un incremento del fatturato medio per le imprese locali fino al +45%. Imponente la visibilità mediatica (3,4 miliardi di contatti) e record di presenze turistiche nel 2022 con 600.000 visitatori, il tutto con un budget tutto sommato contenuto, circa 4milioni di euro.
La chiave è stata anche una governance condivisa tra Comune e Regione, una direzione artistica capace, una comunicazione strutturata e una visione costruita dal basso. “La cultura non isola”, slogan dell’anno procidano, è diventato un brand riconosciuto a livello internazionale.











